IL JUKEBOX DEL TEMPO PERSO – Correva l’anno, il mese, il giorno… 2 dicembre 1967
Correva l’anno, il mese, il giorno… 2 dicembre 1967
Siamo alla fine del 1967 e il Sessantotto, inteso non come anno ma come concetto, è appena iniziato.
Certo siamo in ritardo. Negli Stati Uniti c’è già stata la Beat Generation, l’onda variopinta e incontenibile di San Francisco e della City Lights Bookstore, le occupazioni di Berkeley e di ogni dove, la leggenda del Greenvich Village sulla East Coast e quella del Sunset Strip a Los Angeles. C’è già stata la Summer of Love e c’è chi, tipo Jim Morrison e i Doors in Strange Days e in When The Music’s Over, del Sessantotto canta già fine e fallimento.
Da noi, pianeta Italia, nel biennio precedente, la moda Beat e l’esplosione dei gruppi, i capelli lunghi e il Piper Club, gli angeli del fango e il caso della Zanzara, quando tre minorenni del Parini di Milano finirono sotto processo per aver pubblicato sul giornalino del liceo un’inchiesta sul sesso prima del matrimonio.
A confronto, nient’altro che miccette.
Eppure, l’Italia colmerà il gap e rilancerà con gli interessi, visto che gli avvenimenti della fine del 1967 saranno l’inizio della stagione di contestazione più longeva del mondo occidentale, destinata a durare, con fasi alterne e continue evoluzioni, più di un decennio.
A dare il via alle danze, proprio in questo crepuscolo del 1967, le clamorose (diventeranno abituali, ma in quel momento sono clamorose) occupazioni dei licei della Milano “bene” e delle Università all’apparenza più conservatrici, in primis la Cattolica, sempre a Milano, e la facoltà di Sociologia a Trento, fortemente voluta dalla Democrazia Cristiana. Quasi uno scherzo del destino, proprio dove meno te lo aspetti, verrebbe da dire. Ma al contrario, a ben guardare, tutto accade esattamente dove deve accadere, dove era inevitabile accadesse. Vale a dire dove il contrasto e il divario tra un establishment che pretende di piombare la società italiana a un eterno passato e una gioventù in ebollizione, sono più evidenti e insostenibili.
La prima e più evidente conseguenza, in quel dicembre 1967, quando a Trento e a Milano si aggiungono le occupazioni delle facoltà torinesi, è l’esplosione del dissenso cattolico, con tanto di convegni e coordinamenti nazionali del cosiddetto “cristianesimo sociale” (gli studenti di Trento, in segno di protesta contro il cattolicesimo “ufficiale”, leggono Don Milani sul sagrato della cattedrale durante lo svolgimento della messa). L’onda manda in crisi la DC, che si frantuma in ben otto correnti. Contemporaneamente, nelle proteste, si affaccia l’internazionalismo, l’idea di essere parte di un movimento che va ben oltre i confini nazionali e abbraccia la gioventù del mondo intero. Che Guevara, ucciso due mesi prima in Bolivia, e il destino del popolo palestinese, schiacciato dal mancato ritiro israeliano nei territori occupati durante la guerra dei sei giorni, sono le prime icone della nuova coscienza globale.
La musica, almeno quella più venduta, ascoltata e cantata, spesso (e non solo negli anni Sessanta), sembra vivere in un universo parallelo lontano anni luce dalla storia materiale.
La top ten di quel 2 dicembre 1967 vede al primo posto non è propriamente un inno alla rivoluzione né uno specchio fedele del cambiamento epocale in atto, ma tra le righe contiene più di un segnale, più di un indizio della nuova stagione.
Al primo posto troviamo Dalida con Mama (https://www.youtube.com/watch?v=ww_CQXFTtAk). La cantante italo francese, sin dai suoi primi successi è stata suo malgrado un’icona naturale di esplosiva sensualità, un’incarnazione degli anni Sessanta nel suo stesso essere. Ma in questo caso c’è qualcosa, molto, di più. C’è che siamo nel dicembre 1967 e la splendida Dalida è appena riemersa dalla tragedia del suicidio di Luigi Tenco, avvenuto appena dieci mesi prima, e questa ballata dolente interpretata con uno stile quasi da romanza, suona come una sorta di urlo rabbioso e doloroso affinché quello schiaffo atroce sbattuto in faccia alla società borghese e benpensante dal cantautore genovese possa essere almeno uno spartiacque tra un prima e un dopo. Il pezzo è comunque molto classico e Dalida non entrerà mai nelle grazie di quella intellighenzia che di lì a poco si arrogherà il diritto di stabilire cosa sia o non sia rivoluzionario, ma la sua interpretazione, riletta anni dopo, assume davvero il senso di un crocevia.
Più forte, e soprattutto più netto in questo senso il secondo posto di Don Backy con la splendida Poesia. Cantautorato puro (e maturo), lo stesso titolo sembra una dichiarazione di intenti e di stile tesa a differenziare il brano dal mondo della “canzonetta”. Non siamo ai livelli di un De André (pure al tempo già in piena attività) ma brani del genere ai “piani alti” della classifica non c’erano mai stati (il caso de Il cielo in una stanza non conta o conta poco, visto che non arrivò al primo posto nella versione originale, ma in quella della già popolarissima Mina). Anche in questo caso “l’effetto Tenco” ha la sua parte in causa, visto a seguito del suo tragico suicidio tutto il 1967 – come fosse una sorta di (assurda) compensazione – vede una promozione senza precedenti dei cantautori (non a caso due mesi dopo a Sanremo trionferà Sergio Endrigo).
Ma è anche, indiscutibilmente, il segno del passaggio del tempo.
Così come lo è la presenza massiccia, addirittura con tre brani (sic!) dei Procul Harum, la rock band britannica tra le più influenti in assoluto della storia della musica contemporanea. Se la moda beat e l’esplosione dei complessi (con tutto il campionario di cover tradotte di grandi pezzi anglosassoni) aveva avuto il suo culmine nel biennio 1965-1966 e nel 1967 già viveva il suo calo, qui ritorna in una fase più matura, con le sonorità complesse e al tempo stesso dannatamente affascinanti dei Procul Harum.
Al sesto posto c’è la bellissima Homburg, un rock progressive pionieristico e irresistibile dalle sonorità a tratti addirittura barocche (https://www.youtube.com/watch?v=whiEpmkOIV4), che troviamo anche in quarta posizione nella celebre versione italiana, con il titolo L’ora dell’amore, dei Camaleonti (https://www.youtube.com/watch?v=CTFOb5f1Ip0). Infine, i Procul Harum stazionano in decima posizione (ultima settimana in Top Ten, dopo oltre un mese di presenza fissa) per il loro brano più iconico: la meravigliosa e penetrante A Whiter Shade of Pale (https://www.youtube.com/watch?v=Mb3iPP-tHdA). Anch’essa, puntualmente, qualche settimana dopo verrà “coverizzata” in italiano: eseguita dai Dik Dik con il titolo Senza luce, su un testo di Mogol che non tiene minimamente conto dell’originale, composto da suggestive e indimenticabili strofe ermetiche, finendo per banalizzarla.
Del resto, anche se per una manciata di giorni, è ancora il 1967.
E il Sessantotto è ancora nella culla…