IL JUKEBOX DEL TEMPO PERSO – Correva l’anno, il mese, il giorno… 11 novembre 1960
Correva l’anno, il mese, il giorno… 11 novembre 1960
In Italia nel 1960, primo anno del decennio dei grandi cambiamenti sociali e culturali, lo stipendio medio di un operaio è di quarantasette mila lire, un quotidiano costa trenta lire, un caffè al bar cinquanta, un chilo di pane centoquaranta, un giorno in pensione tutto compreso in riviera, a Rimini, settecento. Il PIL segna +8,3% (il più alto della storia d’Italia) e per la prima volta i lavoratori dell’industria superano quelli dell’agricoltura.
È il culmine del cosiddetto «boom» economico.
Ma se le statistiche raccontano un paese felice e fiducioso nel futuro, in crescita esponenziale e incontenibile, la realtà materiale svela situazioni di tutt’altro tipo. Il fenomeno della migrazione interna, dal sud verso il nord del triangolo industriale, è un flusso ininterrotto che interessa ormai milioni di persone, e che se sulle prime è linfa vitale per un’industria in espansione febbrile, presto – molto presto – presenterà il conto salatissimo di un altissimo squilibrio demografico e dell’abbandono selvaggio delle campagne. E se la produzione vola verso il futuro, cultura e società italiane virano tragicamente in direzione opposta. Il cardinale Ottaviani dalle colonne de «l’Osservatore Romano» ammonisce la Democrazia Cristiana a non dialogare con i socialisti, definiti «novelli anticristi», mentre al governo sale Tambroni con l’appoggio esterno del Movimento Sociale Italiano. Ad appena quindici anni dalla fine della seconda guerra mondiale e della dittatura fascista, è più che una minaccia per la tenuta democratica del paese. Il governo Tambroni dura meno di quattro mesi, ma è lo stesso un pessimo segnale che fa salire la tensione sociale alle stelle: in estate ci sono scontri durissimi a Genova (i camalli del porto, gli ex partigiani, il mondo democratico, manifestano in massa contro il convegno dell’MSI, il bilancio è di 83 feriti), a Reggio Emilia (cinque morti, centinaia di feriti) e in tutto il nord, al sud a Licata, a Palermo e a Catania (altri quattro morti). Caduto Tambroni, la Democrazia Cristiana prova a spegnere la tensione riconsegnando il governo a Fanfani, per riprendere il dialogo con la sinistra socialista e riformista. È l’inizio della stagione dell’apertura e del centrosinistra.
La musica appare impermeabile ai grandi sconvolgimenti della storia e alle tensioni che attraversano e scuotono il paese, quasi un universo parallelo dove esistono soltanto amore e buoni sentimenti. A inizio anno a Sanremo, tanto per fare un esempio, va in scena la sfida tra la nuova scuola degli “urlatori” e quella vecchia dei “melodici”, ma i brani dell’una e dell’altra parrocchia parlano tutti di amori immensi e cuori infranti. Eppure qualcosa, se pur tra le righe, inizia a trapelare anche dentro i colori innocenti dei jukebox.
L’11 novembre la top ten dei singoli più venduti e ascoltati vede in testa, per la terza settimana consecutiva (e dopo che aveva fatto la sua comparsa tra i primi dieci dall’inizio di agosto), uno dei più grandi capolavori della storia della musica italiana: Il cielo in una stanza di Gino Paoli, nella celebre versione di Mina (https://www.youtube.com/watch?v=VkLxROfo2AA). È di nuovo una canzone d’amore ma non è affatto la solita ed ennesima canzonetta.
L’interpretazione di Mina è più ariosa e teatrale, meno struggente e sofferta di quella del suo autore e perciò commercialmente più efficace. A tutti o quasi sfuggì che quel «soffitto viola» faceva riferimento a un bordello e che quindi il brano cantava l’amore per una prostituta, ma fu lo stesso netta e inequivocabile la sensazione di avere a che fare con qualcosa di decisamente diverso, e infinitamente più alto, degli innocenti motivetti sanremesi.
Il secondo posto sembra invece restaurare e riportare la classifica sui binari del classico più rassicurante. Vi troviamo infatti Uno a te, uno a me, canzone all’epoca talmente famosa da contare innumerevoli versioni. L’originale è greca, Ta Pedià tou Pireà (I ragazzi del Pireo), scritta da Manos Hatzidakis per Melina Merkouri. Inserita nel film Mai di domenica di Jules Dassin, vince il premio Oscar per la miglior canzone. Da lì a essere tradotta e riproposta in almeno venticinque lingue, il passo è breve. Ma il secondo posto nella classifica italiana non arriva nelle versioni, pur celebri, proposte da Nilla Pizzi, Wilma De Angelis e Katyna Ranieri, tutte regine indiscusse della canzone melodica, ma con l’interpretazione dell’esordiente Dalida.
La sensualità prorompente e la più aggressiva vocalità della cantante italofrancese conferisce a versi del tutto innocenti – «Stanotte quanti baci, amor/ Uno a te, due a me, finché l’alba non verrà/ Stanotte quanti abbracci ancor» – un inatteso erotismo. Paradossalmente, il compito di sostenere la tradizione spetta a Sua Maestà Elvis Presley, che occupa il terzo gradino del podio con una ballad come It’s Now or Never (https://www.youtube.com/watch?v=Uwelrtb8Oho), le cui sonorità sono anche per il 1960 già ultraclassiche. Sensibili venti di cambiamento tornano a soffiare nelle posizioni di rincalzo. Al quarto posto c’è infatti la splendida Il nostro concerto del grande Umberto Bindi (https://www.youtube.com/watch?v=grDlxUTKQt8). Le parole di questa perla – scritte da Giorgio Calabrese – hanno un’intensità che la distanzia dallo stereotipo della canzonetta, ma l’aspetto più innovativo è senz’altro la partitura, scritta dallo stesso Bindi, dove sono chiari gli echi degli studi classici dell’autore. Un’architettura musicale complessa e articolata in cui spicca un’inusuale overture strumentale di ben settanta secondi. Quasi dieci anni prima dell’esplosione del rock progressive e nel pieno della fanciullezza della musica leggera. Ma del resto, sono cominciati gli anni sessanta e la rivoluzione, anche se non si ha intenzione di farla, la si sente nell’aria a ogni respiro.
E a ogni nota.