Debutta in prima assoluta “Disco Pigs – versione apocrifa” di Sofia Pasquali con la regia di Massimiliano Vado al Teatro Golden-Roma
Debutta in prima assoluta al Teatro Golden di Roma, dal 30 marzo al 1 aprile, DISCO PIGS, spettacolo di Sofia Pasquali con la regia di Massimiliano Vado.
“Disco Pigs” racconta la storia di quattro ragazzi che vivono in un piccolo paese di periferia dove non sono concesse le stravaganze, i sogni, i progetti, ma è accettato solo chi diventa come tutti gli altri: grigio, spento, monotono. Eppure, questi quattro ragazzi, hanno in loro tremila colori diversi. Svariate ambizioni e desideri di fuga, e vorrebbero poter dipingere il mondo con i loro sogni.
Runth sogna di poter scappare da quella realtà, Pig di essere libera ed indipendente, Gin di trovare finalmente la pace, tra droghe e discoteche, e Blu di realizzare una vita come quella che legge dei libri. Sullo sfondo personaggi che spacciano, violentano, ballano, giudicano, assumono sostanze stupefacenti
ma non si muovono; tra loro anche un principe azzurro che viene da fuori città.
La vita, quella vera, non si legge su pagine bianche, ma sui giudizi della gente, non si basa sulla spregiudicatezza ma sulle convenzioni della classe sociale di appartenenza, perché come impareranno i quattro ragazzi, la vita è fatta di errori, scelte, decisioni, perdite, sacrifici, paure. È un compromesso, un rischio, quasi certamente una condanna. Un salto mortale.
Avranno coraggio di rischiare per cominciare veramente a vivere?
Il limite di ogni rivoluzione culturale è, spesso, quello di non riconoscere i contorni nei quali si muove il cambiamento; non occorre che sia una mutazione epocale, basta che si sposti di poco la percezione dell’esecuzione, ma è più semplice accettarne le conseguenze palesi solo a mutazione
avvenuta. Spesso è un atto barbarico che generalmente genera diffidenza e distacco, più raramente viene concordato, quasi mai viene accettato dai recensori, ma non è detto che sia un male..
Nel tentativo di rianimare una vita teatrale e culturale, soprattutto in una città come Roma, la comunità creativa si è riunita per redigere un calendario programmatico di idee e avvenimenti, un dogma necessario per scongiurare l’allontanamento del pubblico avvenuto più per noia che per paura di un contagio: meno spazio alle impostazioni della voce e largo margine alla parte emozionale, permutare gli esecutori di un disegno di regia con la libertà interpretativa affidata all’individuo; meno egocentrismo e più spazio all’errore, per cui ogni spettacolo sfugge dalla replica fotocopia e attracca al porto, ancor discutibile, dell’evento. Unicità e pericolo. Ci si rifugia, ovviamente, sul versante opposto, per giusta difesa. Non si pretende di accendere nuovo interesse sull’argomento, basterebbe non spegnere per sempre quel poco che ancora sopravvive… Compito primo del teatro è quindi quello di essere consapevole di quello che sta realizzando, ovvero concepire un cambiamento di cui si conoscono almeno le origini: prelevare un testo completamente avulso dal nostro sguardo intellettuale e trasformarlo in qualcosa in cui ci si può riconoscere, ma anche spiegare ciò che prima veniva dato per scontato, più per vanità autoriale che per desiderio di sintesi, aiutando sia gli interpreti in scena ad ampliare l’analisi del testo che il pubblico presente ad una maggiore immedesimazione. Più emozioni, meno intonazioni, si è già detto. Tanto vale metterlo in pratica su un testo che in Italia non è mai stato fatto e tradotto in maniera credibile, Disco Pigs di Enda Walsh, per l’occasione completamente centrifugato ed espanso, tanto da diventare, ad opera di Sofia Pasquali, una drammaturgia completamente diversa, certo
più esplicativa, forse necessaria, sia per la contemporaneità del linguaggio che per la difficoltà della realizzazione, certamente in linea con questa programmazione che, in modo carbonaro ma diffuso, ci siamo promessi di promuovere. Un riflettore perennemente acceso sulle crepe dell’esistenza. E su una sinossi apparentemente semplice.
Due ragazze quasi diciottenni Pig e Runth, pronte per festeggiare il loro compleanno tentando la fuga dallo schiacciamento di classe, che le costringerà ad una esistenza senza alcuna gioia, e dal proprio paese, popolato di persone che già si sono adattate alla mediocrità della vita che le aspetta; e contemporaneamente due fratelli Gin e Blu, immersi nello stesso ambiente esistenziale, alle prese con la fuga da se stessi, tra droghe da discoteca e insegnamenti tratti solo dai libri. Un parallelismo che trova senso compiuto solo nel finale.
Spezzare le umanità così come il linguaggio, esasperare i sospiri tra gli attimi violenza, sperare in un’onda emozionale comune da cui è impossibile fuggire, illuminare nuovi punti della nostra anima per lasciare un segno che non sia ego riferito. E in tutto questo, ballare, ballare e ballare. Fino a perdere il fiato.
Prima di tutto sapere di non aver niente di nuovo da dire ma dirlo in maniera nuova, poi scavalcare l’esibizione antica del dover dire per forza qualcosa, soprattutto perché il teatro a sfondo sociale non ha mai fatto nulla di buono per il sociale e quello politico mai nulla di sensato per la politica, e fermarsi nel luogo dove tutto può ancora succedere. Dove pescare dal proprio interno ci fa assomigliare più a dei performer dall’animo disponibile che a degli attori simili a droidi protocollari.
Per questo il sottotitolo – versione apocrifa – come se fosse un vangelo più reale, più credibile, senza dubbio meno fallace, ovviamente più teatrale, per palesare l’impossibilità della mancanza di passaggio di censo come condanna del secolo in corso. L’economia e lo stato sociale contro le libertà di espressione e l’indipendenza viscerale. Senza stereotipi. Senza censure. Darsi delle regole nuove per essere in grado di trasgredire, trovare nuovi attori giovani per impostare una eredità che la vecchia guardia si è dimenticata volontariamente di promuovere; impazzire senza andare fuori controllo, in riva al mare, con la sabbia nera, ogni singola volta… Il futuro del teatro deve, per forza, essere in buone mani.-Massimiliano Vado
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