CuriosArte: Tutti i luoghi della Napoli Velata
Tutti i luoghi della Napoli Velata
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Ci sono città che sono modi d’essere, per le quali occorrerebbe avere occhi in ogni parte del corpo per vederle a 360 gradi e sensi astuti, acuiti come quelli che ci vedono poco, per annusare e avvertire ogni microscopica sfumatura. Napoli è una di queste città, modellata secondo i più strazianti canoni di bellezza, in un carnevale di maschere e modi di dire, una miscellanea di miti e religioni, di usanze arcaiche e affascinanti. La Napoli Velata di Ferzan Ozpetek è femmina come tutte le città e come tale sa cullare i suoi figli nel ventre di vie e bellezze monumentali, sa consigliarli nelle notti insonni con la stessa sincerità di una sorella e come un’amante sa donarsi in tutta la sua carnalità, farsi attraversare fin dentro le viscere da ignoti conosciuti affinché godano di un attimo di magia.
La Napoli borghese è la protagonista indiscussa della Napoli Velata di Ozpetek; velata come una sposa in attesa di incontrare il suo amato, nasconde tra i vicoli e dentro i palazzi grumi di incondizionata bellezza. Vedendo il film non è difficile desiderare di farne parte, di essere anche l’ultimo mattone incrostato posto alle pendici di un palazzo pur di essere dentro lei, come il tassello essenziale di un’opera d’arte. Ma quale è la città partenopea che appare sul grande schermo, dove si trovano quei musei, quelle opere, quei vicoli? Dove si muovono i personaggi? Per rispondere a questa curiosità qui di seguito un itinerario nei luoghi del film, senza tralasciare tutti i segreti e i misteri di un popolo che “sguiglia” continuamente su se stesso (sguigliare = germogliare).
Il viaggio in Napoli Velata: si può iniziare dalle parole della canzone che l’accompagna:
“Io vuless addiventà n’albero ‘e rose/ Pe te fa sentì l’addor e chist’ ammor”
…non esistono alberi di rose. Esistono le Metamorfosi ovidiane, così amate a Napoli. Il film è sfuggente come l’odore di un sentimento…è un frammento di una storia che non si afferra. Che cambia e vi chiede una trasformazione. Tutto e niente ovidiano.
Quella mostrata non è una Napoli banale, ma dalla scala Mannajuolo che gira vorticosa all’inizio, fino a quelle inquadrature sugli spegnitorcia di Palazzo Carafa della Spina, la Napoli mostrata è ancora velata di Grande Bellezza. Bellezza estrema. Spaventosa a percepirla tutta.
“Vasame”, la canzone splendida, è un frammento di quella bellezza che non si afferra, come un fantasma di sè.
Perché Napoli è una città di fantasmi e come ricordava Eduardo, ci sono più fantasmi che vivi.
Se camminate per Napoli, quando non c’è nessuno, voi li sentite davvero questi fantasmi. Credo che tutto il mondo venga lì, inconsapevolmente, a cercare quell’aldilà urbano e tutti sentono quel velo che copre la città.
Ho memorie vivide dell’essermi persa in quella Napoli Velata, così difficile da rendere, tanto che perdono a Ozpetek ogni fallo, perché è l’intuizione che conta qualche volta.
E in quella scena finale dove tutti spariscono, poco dopo il Cristo Velato, io ci ho visto una certa “purapoesia”. Il resto, è questione del “lussodeltempo”.
E Napoli ti concede il lusso del tempo. Della sua percezione.
E allora con calma, concediamoci questo viaggio.
Palazzo Mannajuolo in Via Filangieri
Realizzato tra il 1909 e il 1911, è il caso più emblematico di Liberty, che la città possa ricordare. Il palazzo è stato realizzato da Giulio Arata, in collaborazione con l’ingegnere Mannaiuolo, che deteneva la proprietà del suolo dove sorge il palazzo.
Si scelsero materiali resistenti per la costruzione, tra cui il calcestruzzo armato ma la struttura ad angolo con volumi convessi e concavi, fornisce un’immagine piuttosto armonica, nonostante la rigidità del colore del materiale utilizzato.
Sulla sommità del palazzo poi, vi è una finta cupola, è la prima cosa che si scorge del Palazzo Mannajuolo quando si transita per Via Filangieri.
Il particolare più interessante è sicuramente all’interno: la scala ellissoidale realizzata con marmo a sbalzo e con una balaustra in ferro battuto. In città non ce ne sono altre simili, ed è quindi unica nel suo genere, sembra rappresentare l’organo genitale femminile.
Nel 1925 al piano terra c’era il cinema-teatro Kursaal e nel 1931 ci fu il debutto della Compagnia del Teatro Umoristico I De Filippo (Eduardo, Peppino e Titina, figli illegittimi di Eduardo Scarpetta) e proprio qui andò in scena la prima della commedia “Natale in casa Cupiello” che fu un capolavoro del teatro napoletano.
C’è chi giura di sentire, soprattutto la notte, le risate fragorose e le battute del grande Eduardo. La sua anima si farebbe un simpatico giro sulla scala liberty decantando le sue commedie di un tempo. Ma sarebbero solo suggestioni.
la figliata dei femminielli
Nella cultura popolare napoletana, il femminiello è una figura molto importante e in questo articolo vedremo insieme come si svolge la famosa figliata dei femminielli, quale è la sua storia e in che modo ha influenzato il cinema.
Come si svolge la figliata dei femminielli?
A spiegare bene come si svolge questo antico rituale è Curzio Malaparte in “La Pelle” in cui scrive:
“Il femminiello in posizione supina, simulava le doglie del parto accerchiato da altri Femminielli che accompagnavano la recita con lamenti e litanie secondo le tecniche del taluorno (accompagnamento vocale) e del trivolo battuto (dolore picchiato, cioè una cantilena tipica della veglia funebre in cui si oscilla il capo avanti e indietro colpendo le proprie guance con le mani.) Il frutto del parto era talvolta una bambola o più frequentemente un fallo di dimensioni spropositate e veniva festeggiato con babà e Vermouth offerti con grande gioia dalle donne presenti in sala. La scena, che poteva durare anche diverse ore proprio come un reale travaglio, veniva spesso coperta da un telo, in quanto, secondo la tradizione, era più importante sentire che vedere”.
Il femminiello quindi sdraiato sul letto, simula le doglie del parto con gesti e lamenti. I presenti, raccolti intorno al letto eseguono un lamento rituale che spesso è una cantilena tipica delle veglia funebri. La figliata è finita quando viene esposto il nuovo arrivato che in genere è un bambolotto con un fallo enorme, simbolo di fertilità. Gli spettatori assistono a tutta la scena del parto attraverso un velo che da all’intero rito un aspetto ancora più magico e misterioso.
La nascita del rito della figliata dei femminielli, inteso come rito di fecondità, si perde nella notte dei tempi. Un rito che in Campania, e più precisamente a Torre del Greco, in provincia di Napoli, si svolge da secoli.
La derivazione, come anche quella della famosa Juta dei Femminielli che si svolge durante il giorno della Candelora (il 2 febbraio) è da rintracciare al culto di Cibele, la Grande Madre, e del dio Attis, i cui sacerdoti evirati erano soliti emulare il parto come rito di fecondità.
La scena oggi più famosa della figliata dei femminielli è sicuramente quella messa in scena da Ferzan Ozpetek all’inizio di Napoli Velata. Qui un bravissimo Peppe Barra, attore di teatro, è il cerimoniere del rito e tutto intorno la famosa scena del parto. “Ssshhh! Zitti! Silenzio! Questa è ‘na storia antica. Anzi, eterna. Da quann’ è nato il mondo le cose so’ iut semp’ accussì.”
Altro film in cui è presente è nel film della regista Liliana Cavani del 1981 tratto proprio dall’omonimo libro di Curzio Malaparte “La Pelle”.
Nel film, con Mastroianni e la Cardinale, viene messa in scena la figliata al cui termine viene esposto una bambola di legno con un grosso fallo che ricorda i tanti quadri di Priapo, divinità greca e romana a cui sono dedicati tanti mosaici a Pompei.
Palazzo Pandola
Lo storico palazzo viene ricordato per essere stato la location privilegiata di molte pellicole del cinema napoletano come I giocatori, uno degli episodi del film L’oro di Napoli (1954) e Matrimonio all’italiana (1964), dirette entrambe da Vittorio De Sica. In quest’ultimo, gli interni dell’edificio con vista su piazza del Gesù, furono utilizzati per rappresentare la casa di Filumena Marturano, interpretata da Marcello Mastroianni e Sofia Loren. In tempi più recenti è stato scelto come set cinematografico per la miniserie televisiva Giuseppe Moscati (2007), diretta da Giacomo Campiotti, rappresentando, per l’appunto, l’abitazione dell’illustre medico.
Da un punto di vista architettonico la residenza monumentale risponde a un stile tardo barocco. In origine l’edificio era parte integrante di Palazzo Pignatelli di Monteleone. Nel 1820, venne acquistato da Gaetano Pandola, imparentato con la famiglia Pignatelli, adibito a residenza modificandone lo stile originario della facciata in neoclassico. Oltre ai balconi fu creato un imponente cornicione e un portale avanzato rispetto al prospetto.
Come la maggior parte dei palazzi monumentali del centro antico della città, anche Palazzo Pandola custodisce, all’interno del suo cortile, un’imponente e mozzafiato scala aperta settecentesca ornata con decorazioni pittoriche.
Grazie a Gaetano Pandola e in seguito ai suoi figli, Eduardo ed Enrico, il palazzo fu adibito a luogo d’incontro e di rifugio prima per Carlo Poerio, condannato all’ergastolo per aver preso parte ai moti rivoluzionari del 1848, e poi per diversi patrioti irredentisti, tra cui Guglielmo Oberdan, che fu direttore del giornale patriotico Pro Patria dopo aver disertato dall’esercito. Quest’ultimo nel 1882 preparò anche un attentato nei confronti dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe, ma la sua congiura fallì e venne decapitato.
Ancor oggi il rivoluzionario Oberdan viene ricordato attraverso una lapide posta sul lato destro del portale d’ingresso del Palazzo.
L’Obelisco di Piazza del Gesù e la leggenda dell’Immacolata dal doppio volto
L’obelisco dell’Immacolata (o più propriamente guglia dell’Immacolata) è un obelisco barocco di Napoli che si trova in piazza del Gesù Nuovo, di fronte alla chiesa omonima. Una leggenda narra che se si fissa attentamente di spalle il velo che avvolge il capo della Vergine appare il volto della morte. Si tratterebbe di un volto stilizzato con lo sguardo verso il basso: la Morte in persona con tanto di gobba e falce in mano. La statua dell’Immacolata è in rame, mentre il resto è adornato da sculture raffiguranti alcuni santi e quattro episodi del Vangelo legati alla Madonna. Le immagini blasfeme legate alla raffigurazione della morte, visibili in alcune ore del giorno indicherebbero l’esistenza a Napoli del culto della Santa Morte, una divinità messicana di origini pre-colombiane.
La Chiesa del Gesù Nuovo – esoterismo e Maste ‘e prete
Tra le più imponenti chiese napoletane, fu costruita tra il 1584 e il 1601 al posto del palazzo rinascimentale appartenuto ai nobili Sanseverino, poi costretti all’esilio quando l’erede di Roberto Sanseverino, Antonello, entrato in contrasto con la corte aragonese organizzò una rivolta contro il re Ferdinando I d’Aragona.
Questi, scoperta la congiura ordita contro di lui, soffocò la stessa nel sangue costringendo il nobile casato alla fuga. Confiscati i beni della famiglia, la proprietà venne venduta alla Compagnia di Gesù che vi fecero costruire la chiesa, dedicata alla Madonna Immacolata e chiamata “del Gesù Nuovo” per distinguerla da una preesistente chiesa, ubicata alla fine di via Paladino, e ribattezzata, dopo la consacrazione del nuovo luogo di culto, “del Gesù Vecchio”.
L’esterno si presenta sobrio, dalla caratteristica facciata in bugnato a punta di diamante. La lavorazione delle bugne si deve principalmente all’arte secolare dei “Maestri pipernieri” campani, abili esperti della sagomatura della pietra del “Piperno” durissima da intagliare e scolpire. Con l’utilizzo di questo elemento molto ricercato e indistruttibile, giá impiegato in tarda epoca romana, si costruiva principalmente la pavimentazione delle strade, e anche in Campania, questa pietra era entrata di merito nel quotidiano, sostituendo (in parte) la bella pietra gialla di Tufo dall’anima morbida e dolce.
Nel Rinascimento questi “Maste ‘e prete” erano delle figure professionali molto ricercate che sapevano caricare di energia “positiva” le pietre del Piperno.
Un’usanza scaramantica molto in voga era quella che riguardava le fondamenta di un palazzo; per augurare la buona sorte alla famiglia proprietaria, si adoperava cementare la “bolla” (evocazione di un cartiglio magico) insieme ad alcune “monete” dell’epoca (allusione all’obolo per i morti) come riportano alcuni rituali pagani di origine greca, per ingraziarsi i favori degli Dei e dell’oltretomba.
Secondo un rituale esoterico, per attirare l’energia positiva e scacciare gli influssi negativi da una dimora, bisognava collocare le bugne con le punte di diamante rivolte all’interno dell’edificio; perché allora sulla facciata del Gesù Nuovo, il bugnato è predisposto all’incontrario, attirando così la mala sorte? Frutto dell’ignoranza dei Maestri Pipernieri? Non di certo visto che erano profondi conoscitori dell’alchimia e dell’esoterismo; una leggenda spiega vi fu il sentore di un complotto: i maestri pipernieri furono corrotti dai nemici del Principe Sanseverino, intenzionati a vendicarsi sulla sua famiglia e sulle sue ricchezze.
Altra curiosità legata al particolare bugnato della chiesa del Gesù è la recente scoperta dell’esistenza di note musicali incise su alcune pietre del bugnato. Grazie agli studi dello storico dell’arte, Vincenzo De Pasquale grande estimatore del rinascimento napoletano e musicofilo, si è riusciti a decifrare l’enigma dei simboli occulti presenti sulle bugne; si tratterebbe di uno spartito musicale scritto in lettere aramaiche da leggere al contrario: partendo dal basso verso l’alto, da destra verso sinistra.
Venne così alla luce un capolavoro mai udito: le prime note musicali di una suggestiva composizione intitlata “Enigma” la partitura di un concerto per strumenti a plettro della durata di tre quarti d’ora circa. Un pentagramma evocativo.
Ancora oggi gli studi degli affascinanti simboli, oggi note musicali, proseguono, una leggenda narra che possa trattarsi dello spartito dell’opera “Herr Jesu Christ, dich zu uns wend, BWV 655” di Johann Sebastian Bach, che fu a Napoli anche in veste di massone.
Gabinetto Segreto: le stanze proibite del Museo Archeologico di Napoli
Sono sempre state una costante nell’arte di ogni tempo le forme falliche, donne formose e scene di amplessi, raffigurate sui muri, dipinte o scolpite nella pietra. Per i romani queste espressioni artistiche non erano qualcosa da nascondere o camuffare, anzi simboli di fertilità, divertimento, abbondanza e convivialità. Non era difficile trovare la raffigurazione di un’orgia in una sala da pranzo o organi genitali in pietra per buon auspicio.
Molti di questi frammenti “erotici” della vita quotidiana dei romani emersero nel corso dei primi scavi archeologici fra Ercolano e Pompei. L’Europa di inizio ‘800 non era particolarmente bendisposta verso simili manifestazioni e i Borbone, per quanto fossero sovrani di più larghe vedute, nemmeno condividevano uno stile di vita tanto dissoluto. Fortunatamente, però, non erano così bigotti da distruggere questi reperti e, anzi, decisero di esporli nel Real Museo Borbonico, oggi il Museo Archeologico.
In due stanze accessibili dalle scalinate che collegano primo e secondo piano del museo, nascoste alla vista di chi non sa dove guardare, sorse il “Gabinetto Segreto”, nei secoli chiamato anche “Gabinetto degli oggetti riservati”, o anche “osceni e pornografici”. I Borbone decretarono che potessero accedervi solo “persone di matura età e di conosciuta morale”. I moti rivoluzionari del 1848, però, resero i sovrani molto meno tolleranti.
Le opere custodite nel Gabinetto Segreto divennero simbolo delle libertà civili e pertanto andavano nascoste al pubblico. Per qualche anno si discusse circa la loro sorte e furono avanzate numerose proposte per distruggerle, ma nel 1851 l’allora direttore del Museo riuscì a trattare per la loro salvezza proponendo di sigillarle con un sistema che farebbe invidia a qualunque film. Le due stanze vennero chiuse con un portone da tre serrature: le tre chiavi corrispondenti vennero affidate rispettivamente al direttore, al “controloro”, un addetto al controllo dell’area, e al real maggiordomo reale.
Nemmeno questo sistema accontentò la voglia di censurare: pochi mesi dopo vennero “recluse” all’interno della sezione proibita anche tutte le raffigurazioni di Venere perché mettevano in mostra nudità e, per sigillare definitivamente il tutto, il portone venne murato. Questa assurdità cessò quando Garibaldi occupò Napoli e, siccome non trovò mai la terza chiave necessaria, decise di far scassinare la porta rivelando i tesori custoditi al suo interno.
Tuttavia, il Regno d’Italia non fu meglio disposto dei Borbone nei confronti del Gabinetto Segreto, sottoponendo l’ingresso al suo interno a regole particolarmente rigide. Nel ventennio fascista non si poteva mettere piede all’interno delle due stanze senza un’autorizzazione scritta da parte del Ministro dell’Educazione Nazionale. La situazione si affievolì solo nel 1967, quando finalmente i maggiorenni ebbero il permesso di visitare la sezione. Solo nel 2000 il Gabinetto Segreto ha definitivamente aperto al pubblico.
EX Convento di Napoli
La Napoli che circonda i personaggi in attesa di parlare con la medium e saperne di più sul fantasma che tormenta Adriana è una Napoli fatta di vecchi palazzi abbandonati; la città non valorizzata e lasciata al collasso su se stessa, ma oltre il cui sudiciume si intravede ancora una patina di strabiliante bellezza: una vita passata che resiste al tempo.
Il cortile in cui si consuma l’attesa e poi la stanza in cui l’enorme donna si trova sono ricavati dall’ex Convento napoletano, in via San Nicola al Nilo (vicino alla nota Via dei Presepi alias Via San Gregorio Armeno), incastonato tra i vicoletti che corrono vicini a Piazza del Gesù.
Qui si reca Adriana, in compagnia della zia e di altre amiche, per incontrare una medium per saperne di più sul fantasma che la tormenta. Il medium, un’enorme donna che è costretta al letto per l’obesità, ricorderebbe la sibilla cumana che con la sua maestria divinatoria aveva il compito di interpretare il destino, «il fato» degli uomini.
La storica Farmacia degli Incurabili
Uno dei luoghi più suggestivi di Napoli dove la scienza ha incontrato l’arte è la parte meglio conservata del “Complesso degli Incurabili”, situato nel centro storico della città, non lontano dal decumano superiore (ora via dell’Anticaglia). In stile barocco-rococò, anticamente era un laboratorio del farmaco e punto di ritrovo dell’elìte dell’illuminismo napoletano.
Chiusa in seguito al terremoto del 1980, è stata restaurata e riaperta alle visite solo nel 2012. La storia della farmacia non può prescindere da quella dell’Ospedale degli Incurabili (in origine chiamato “Santa Casa degli Incurabili”) costruito, tra il 1520 e il 1522, con tanto di chiesa annessa, per volontà della nobildonna catalana Maria Longo.
Dopo essere guarita da una forma di artrite reumatoide giovanile che l’aveva paralizzata, la nobildonna volle tener fede a un voto fatto quando era malata fondando un ospedale per la cura di ammalati di sifilide rifiutati dagli altri nosocomi. Dopo qualche anno dalla sua costruzione la Longo divenne monaca di clausura fondando l’ordine delle Trentatrè (il numero fa riferimento agli anni di Cristo e al numero massimo che poteva ospitare il convento). Le prime consorelle furono alcune prostitute convertite che, ammalate di sifilide, erano state curate presso l’ospedale (per questo motivo il monastero era anche detto “delle Convertite”). In poco tempo il nosocomio divenne uno dei più importanti di tutto il Regno di Napoli.
Oggi l’ospedale è ancora in attività: trsi atta dell’unico al mondo ancora in funzione dopo 500 anni, e anche l’unico dove hanno lavorato ben 33 medici poi santificati, tra cui san Gaetano Thiene e san Giuseppe Moscati.
La sala nella quale veniamo catapultati nel film è un’esplosione di maioliche – circa 400 – e scaffali in legno dagli intagli dorati, col pavimento in maiolica e la tela del Bardellino che decora il soffitto, rappresentante Macaone che cura Menelao ferito (1750). In questa stessa stanza, che è poi quella che ci è concesso vedere meglio in Napoli Velata, è esposto l’Utero Velato: un grande utero verginale che domina l’intera sala, sezionato come per un taglio cesareo longitudinale. Nell’illustrare i tesori di questa cripta dorata Pasquale parla del diavolo intento a mettere lo zampino nel miracolo della creazione, ma purtroppo non ci è dato sapere il resto, rimane dunque la curiosità di recarsi in loco, sperando di trovare un cicerone poetico e bravo quanto quello interpretato da Barra.
Nel Rione Sanità, la grotta artistica di Michele Iodice
Nel cuore del Rione Sanità in via Salita Capodimonte Michele Iodice ha il suo studio che è ubicato in un’antica grotta di tufo.
Durante la reggenza borbonica, la grotta era destinata al ricovero dei buoi. Infatti quando i reali si recavano alla Reggia di Capodimonte e i cavalli erano ormai stanchi per trascinare su per la ripida salita la carrozza reale venivano sostituiti dai buoi in questa grotta.
Oggi la “stalla reale” è stata totalmente reiventata dall’artista come studio privato. Qui le sue opere spadroneggiano in tutte le stanze. Ingresso, salone, cucina, finanche il bagno sono ricchi delle sue opere. Iodice è un artista eclettico sia per temi che per materiali. Le sue sculture sono in gesso, ferro, anche plastica e i soggetti sono svariati. Sacro, profano, la veracità di Napoli e anche l’intramontabile mito.
https://fondoambiente.it/luoghi/laboratorio-di-michele-iodice
Certosa di San Martino e di Castel Sant’Elmo
Uno dei panorami più belli di Napoli Velata lo si scorge dal chiostro di San Martino, in cui è stata girata la scena della tombola: uno dei riti più belli della città partenopea attraverso il quale emergono i segreti legati ai numeri e sempre qui la macchina da presa di Ferzan Ozpetek ci lascia ammirare il panorama mozzafiato che si vede, costituito dalle cittadine che albergano sotto il Vesuvio (Portici, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata). Si tratta di uno dei posti più panoramici di Napoli, da qui è possibile ammirare tutto il Golfo e la città. Ma come tanti luoghi partenopei anche questa collina è avvolta in un alone di mistero. Infatti ci sono delle leggende che raccontano di fantasmi che la notte popolano le stanze ed i sotterranei della Certosa di San Martino e di Castel Sant’Elmo.
Fantasmi di San Martino, le leggende
Quest’ultimo è uno dei castelli più famosi di Napoli e sorge in un luogo chiamato anticamente Paturcium. Qui nel X secolo esisteva una chiesa dedicata a Sant’Erasmo di Formia, da cui la denominazione Eramo, Ermo, Elmo. La fortezza è in parte ricavata dal tufo giallo napoletano della roccia e da qui si poteva controllare tutta la città, il golfo e le strade che portano giù. Castel Sant’Elmo è l’unico castello al mondo ad essere costruito su una pianta a sei punte e secondo gli esperti ciò serviva alle guardie per poter sparare da tutte le direzioni e difendere la collina.
Il castello e la Certosa di San Martino sono protagonisti di alcune leggende. Una di queste narra che nelle stanze di Castel Sant’Elmo vaghi un fantasma burlone che ama spaventare i passanti, mentre un’altra racconta di molti nemici che tentarono nel tempo di assalire il complesso di San Martino. Le guardie reali li uccidevano e i loro corpi venivano gettati nei sotterranei per farli divorare dai topi senza ricevere una degna sepoltura. Da qui pare che ancora oggi dopo il tramonto provengano rumori e urla strazianti delle anime dannate dei soldati uccisi. Secondo gli studiosi questi suoni sono attribuibili al fischio del vento nelle grotte sottostanti.
Un’altra leggenda è quella che riguarda la “Sala delle Maschere” della Certosa. L’importante collezione di maschere indossate da celebri artisti napoletani custodita all’interno del complesso di San Martino: Totò, Eduardo, Petito, Nino Taranto e altri. Qui di notte gli spiriti degli artisti si riuniscono nelle sale tanto che i custodi che restano dopo la chiusura lavorano solo in coppia.
L’isolotto di Megaride, su cui si innalza il Castel dell’Ovo
è stato il primo approdo dei Greci che conquistarono il golfo di Napoli e fondarono nel 474 a. C. la “città nuova” Neapolis. Il Castello, costruito attorno al 1128 su un sito denso di complesse vicende storiche, fu probabilmente luogo di culto pagano, come narra la leggenda legata alla sirena Partenope, ma con i monaci basiliani diventò luogo di culto cristiano.
I primi accenni di fortificazione si ebbero proprio con la presenza dei monaci, ma divenne una vera fortezza con i normanni, per poi diventare finalmente castello con gli angioini. Il Castel dell’Ovo spicca maestoso sull’antico Isolotto di Megaride. Una delle più bizzarre leggende napoletane attribuisce il nome del castello all’uovo che Virgilio avrebbe tenuto nascosto in una gabbia posta nei sotterranei. L’uovo fu difeso con pesanti serrature e mantenuto segreto perché proprio da questo “oggetto prezioso” dipendeva la buona sorte del Castello.
Da quel momento in poi il destino non solo del Castello, ma anche dell’intera città di Napoli, è stato legato a quell’uovo, certo un sostegno che potremmo definire un po’ fragile, ma pur sempre qualcosa a cui appigliarsi per un po’ di speranza. Si pensi che la cronaca dell’epoca riporta che, al tempo della regina Giovanna, il Castello subì gravi danni a causa del crollo dell’arcone che lega i due scogli su cui è innalzato e che la Regina fu praticamente obbligata a dichiarare ufficialmente di aver sostituito l’uovo per evitare che in città si spargessero timori per l’avvento di nuovi e più dannosi disastri.
Molti personaggi si sono avvicendati in questo luogo, tra chi ha scelto di abitarvi e chi è stato costretto a rimanere qui come prigioniero.
Il primo ospite illustre di cui ci parla la storia è Romolo Augusto, ultimo imperatore di Roma, che Odoacre tenne in esilio scegliendo proprio il Castello per la sua prigionia. Anche Tommaso Campanella fu uno dei prigionieri popolari del Castello probabilmente nel 1608. Nel 1800 furono prigionieri altri personaggi celebri tra giacobini, carbonari e liberali, come Francesco De Sanctis, Carlo Poerio e Luigi Settembrini. Tra le persone che invece hanno scelto di abitare sull’isolotto ci sono Lucio Licino Lucullo e Federico II. Roberto d’Angiò ebbe l’onore di ospitare al Castello Francesco Petrarca, tornato anche per una seconda vacanza nel corso della quale fu spettatore e poi cronista di un violentissimo maremoto che nel 1343 si scagliò sulla città, causando gravi danni al Castello.
La Galleria Umberto I di Napoli: un tempio di simboli massonici celati nell’arte
La Galleria Umberto I di Napoli, la maestosa architettura in ferro e vetro in pieno stile Liberty, cela alla vista dei passanti alcuni segreti: un tempio massonico, simboli e segni misteriosi che rimandano ad un profondo messaggio esoterico.
Pochi sono a conoscenza che la Galleria Umberto I di Napoli, oltre a rappresentare un piccolo e ingegnoso gioiello dell’architettura in ferro e vetro con chiaro riferimento al gusto eclettico di fine Ottocento, nasconde al suo interno un vero scrigno di simboli e allegorie, una sorta di tempio misteriosofico, nel quale l’iniziato passeggiando fra le sue braccia e al di sotto della grande cupola, riesce ad apprendere una conoscenza arcaica.
E’ la persistenza della Napoli velata, quella densa di aspetti ignoti che ridesta la memoria antica dell’uomo assopita dalla realtà; è come scriveva Giuliano Kremmerz «vi è qualcosa nell’uomo vivente, la quale a prima vista non appare: una riserva di forze ignorate che in certi momenti non precisabili possono dare fenomeni inaspettati ed effettivi».
Al suo interno ospita il celebre teatro della Belle Époque, ovvero il Salone Margherita, il più importante salotto culturale di Napoli nonché sede principale attualmente dello svago notturno dei napoletani che inizio Novecento accolse personalità di spicco come: Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, Gabriele D’Annunzio, Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Eduardo Scarfoglio e Francesco Crispi.
Porta Nolana
è una delle più antiche porte d’ingresso della città di Napoli. Situata nei pressi di piazza Garibaldi.
La porta quattrocentesca ha ancora oggi conservato un arco a tutto sesto in marmo incastonato tra le due torri, la torre della Fede, detta anche “Cara Fè” e Torre della Speranza. Sull’arco della porta riusciamo ad ammirare uno dei rari esempi di arte rinascimentale in città, un bassorilievo marmoreo che raffigura il re aragonese Ferrante I a cavallo a cui si aggiungono gli stemmi regali aragonesi ed angioini, la rappresentazione della città di Gerusalemme, i gigli e degli scudi sannitici.
La posizione attuale di Porta Nolana è in realtà frutto della riqualificazione della zona cha avvenne grazie ai sovrani aragonesi, in seguito all’ampliamento delle mura difensive della città. Difatti, un tempo la porta era situata in Via Forcella.
Il nome particolare di questa antichissima porta d’accesso si deve al fatto che era posizionata sulla strada che portava proprio alla città di Nola. Anticamente il varco era conosciuto anche come porta “Herculanensis” o porta “Furcillensis”, proprio perché era il portale di accesso allo storico quartiere di Forcella, che era situata accanto alla Basilica dell’Annunziata.
Ma come tutte le porte di Napoli, anche Porta Nolana, oltre a racchiudere la storia di un Regno, porta con se un alone mitico e misterico, un alone che avvolge anche questo varco, considerato uno degli antichi simboli di Neapolis.
In Cronaca di Partenope vengono descritte due figure umane di marmo posizionate nell’arco proprio da Virgilio. Nei suoi anni trascorsi a Napoli, la fama di Virgilio crebbe sempre più sino a diventare mago, santo, e protettore della città di Napoli. Virgilio fece posizionare sotto l’arco di Porta Nolana due figure in marmo, che rappresentavano un uomo ridente e una donna piangente. Per l’uso antico di trarre auspicio dai passaggi, prese forma la leggenda che riguardava chiunque attraversasse la porta. Se qualcuno voleva ottenere una buona riuscita dell’affare che doveva condurre in città e per caso passava sotto l’immagine dell’uomo che rideva, sicuramente ne conseguiva buoni auspici; se, invece, passava dal lato della porta dove c’era la testa della donna che piangeva, allora l’esito negativo della faccenda era inevitabile.
La leggenda fa riferimento, come tutte o quasi le leggende di Napoli alle antiche simbologie che rimandano all’Oriente e all’equilibrio degli opposti. Testimonianza di una città attraversata continuamente dalle influenze dei popoli mediterranei.
La Cappella Sansevero e la maledizione del principe
Oggi la cappella ospita opere d’ arte di grande valore come il già accennato Cristo Velato di Giuseppe San Martino, la Pudicizia di Antonio Corradini, e il Disinganno di Francesco Queirolo. La cappella che è il fulcro dell’ arte nella città di Napoli, ed era anche luogo di culto della famiglia Sansevero, è una chiesa sconsacrata. Perché vi starete chiedendo? Perché oltre alle sue preziosissime e stupefacenti opere d’arte, c’è anche un lato oscuro, un macabro segreto; la cappella è stata il tempio massonico del principe di Sansevero alias Raimondo di Sangro.
Chi era Raimondo di Sangro? Ci sono varie leggende sul principe di Sansevero che possono essere vere come anche no. Aveva dei laboratori di alchimia adiacenti alla cappella. Secondo una testimonianza del filoso Benedetto Croce nel suo saggio ”Scritti di Storia Letteraria e Politica”, il principe fece uccidere due dei suoi servitori (un uomo e una donna incinta) facendoli imbalsamare e facendo dei loro corpi delle macchine anatomiche iniettandogli una sostanza segreta metallizante, e utilizzò la pelle e le ossa per realizzare delle sedie. Oggi le due macchine si possono vedere nel suo laboratorio. Tra le cose più orribili, il principe accecò l’artista Giuseppe San Martino dopo la realizzazione del Cristo Velato perché non voleva che realizzasse opere di tale bellezza per nessun altro. Croce affermò anche che di Sangro mentre stava per morire, si fece tagliare a pezzettini, ma si ricompose uscendo dalla bara vivo e vegeto. Un’altra leggenda racconta che il Cristo Velato era ricoperto di un vero velo e che il principe con un segreto processo alchemico lo fece diventare di marmo. Secondo tutte queste leggende e dicerie, Raimondo di Sangro era una persona legata al male, un vero e proprio sanguinario, ma tutto ciò potrebbero essere soltanto racconti popolari anche se il popolo partenopeo porta sempre la teoria del “non è vero ma ci credo”.
Tra le più famose leggende, c’è quella in cui il principe abbia lanciato una maledizione sugli studenti universitari, soprattutto quelli di medicina.
La tradizione vuole che lo studente che veda il Cristo velato durante il suo corso di studi, non conseguirà la laurea. Nonostante su tutto ciò che riguarda la cappella e il principe di Sansevero non ci siano certezze, gli studenti napoletani che siano di medicina o di qualsiasi altra facoltà, rispettano alla lettera questa tra dizione, proprio perché ciò che accomuna il popolo napoletano è proprio il fatto di essere molto superstiziosi e legati alle tradizione vere o false che siano.
Il velo di Napoli velata, quello che zia Adele stende sulla figliata dei femminielli dicendo “alla gente non piace troppa verità” , non copre, ma amplifica. Come quando veli una ciotola che contiene pasta di pane per farla lievitare. Mettere un velo su qualcosa ne aumenta l’azione e il sentimento.
C’è un lievito potente nella città di Napoli, stando dietro il velo avviene una straordinaria fermentazione, visti da dietro il velo tutti gli esseri umani paiono fantasmi.