CuriosArte: Skhizein, venire colpiti da un meteorite e non essere più se stessi…
“Shkizein”, in greco, significa “diviso”, è l’origine della parola “Schizofrenia”
Così si intitola un intenso cortometraggio d’animazione, diretto nel 2008 da Jérémy Clapin, vincitore del Kodak Short Film Award del Festival di Cannes del 2008, e numerosi altri premi.
Skhizein è la storia surreale di Henry, un uomo che dopo essere stato colpito da un meteorite di 150 tonnellate, deve adattarsi a vivere esattamente a 91 centimetri da sé stesso.
Henry può passare attraverso i muri, può accendere il vecchio televisore senza vederne lo schermo, è costretto a ridisegnare la sua casa in funzione della distanza che deve mantenere. Dice che si abituerà, ma una vita così non può durare a lungo. Parla disperatamente del problema al suo psicoanalista.
Mescolando il classico immaginario della fantascienza anni Cinquanta e la Psicoanalisi, Clapin affronta il tema della “riconquista della normalità” riuscendo a fare riflettere, con ironia, sulla delicata tematica della malattia mentale.
Dopo aver guardato il cortometraggio di 13 minuti si rimane totalmente incantati. Dall’idea alla realizzazione, quest’opera è originale, ammaliante e stimolante.
Ci sono solo pochi concetti che mi spaventano veramente in questo mondo (gli esempi includono i paradossi del viaggio nel tempo e la sindrome del locked-in). A questo elenco aggiungo ora “vivere a 91 centimetri da me stessa”. Questa idea è resa da parte del film in maniera terrificante, facendo sembrare del tutto plausibile una situazione a dir poco stravagante.
Il povero Henry è un ragazzo normale prima che il meteorite colpisca la sua vita, costringendolo a essere strappato dalla realtà. Diventa incapace di vivere nel proprio corpo, di sperimentare la pienezza dell’esistenza. Nessuno capisce cosa sta passando; pochi, se non nessuno, gli crede.
I tentativi di migliorare la sua situazione non fanno che peggiorare la situazione. Il meteorite è una metafora di qualsiasi tipo di trauma che potrebbe accaderci.
Si potrebbe parlare per ore di questa metafora, ma è trasmessa così incredibilmente bene attraverso il film, che la soluzione migliore è guardarlo: