CuriosArte: La pacca sulla natica e il narciso
Attribuito di recente a Lavinia Fontana, Marte e Venere, di proprietà della Fundación Casa de Alba e conservata a Madrid, a Palazzo Liria, è un’opera singolare, dall’iconografia unica.
I protagonisti, il dio della guerra e la dea dell’amore, sono raffigurati seduti sopra un letto a baldacchino, con le tende di seta rossa che si aprono come un sipario, e con il dio Amore, nella consueta rappresentazione del puttino alato con l’arco, che dorme sopra al cuscino. A terra si vedono una brocca, le pantofole di Venere, lo scudo e la spada di Marte.
Ciò che però rende unico e senza precedenti il dipinto, almeno per quel che ci è al momento noto, è il gesto di Marte, colto mentre palpeggia la natica sinistra di Venere. Lui, con indosso un elmo da soldato dell’epoca della pittrice, la guarda in faccia, mentre lei, che non sembra disturbata dal gesto, guarda invece verso l’osservatore, tenendo nella mano destra un narciso. Sono entrambi nudi: a lui sono rimaste addosso solo le braghe, mentre lei non indossa altro che una collana di perle e un paio d’orecchini d’oro e cristallo di rocca.
L’iconografia di Marte e Venere, con il dio che tocca in maniera così plateale e con tanta bramosia i glutei di Venere, è un unicum. Non ci sono altri casi simili che precedano il dipinto di Lavinia Fontana. Come si può contestualizzare un dipinto simile nell’arte di fine Cinquecento e soprattutto nella produzione di una donna?
Per arrivare a comprendere le ragioni del dipinto è necessario avere chiara la temperie culturale che poté produrlo. Siamo al tempo della scoperta della Venere Callipigia oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, rinvenuta verso la metà del XVII secolo e descritta per la prima volta nel 1556 dallo scienziato bolognese Ulisse Aldrovandi (Bologna, 1522 – 1605), che la vide nelle collezioni dei Farnese. La Venere “dalle belle natiche” (questa la traduzione esatta del greco “Callipigia”) ebbe una gran fortuna negli ambienti letterari e artistici del tempo.
È possibile ipotizzare che Lavinia conoscesse bene la Venere di Napoli, dal momento che suo padre, il grande pittore Prospero Fontana, intratteneva fitti rapporti coi Farnese almeno a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento.
A ciò va aggiunto un ulteriore fenomeno, senza il quale certe opere non potrebbero esser spiegate: “il gusto per l’adozione di un registro ‘basso’, scurrile, privo di senso del limite, che si era diffuso in Italia e in Europa a partire dagli anni Venti, in coincidenza con la nascita della cultura manieristica”. Il Cinquecento, come attestato da numerosi studi e mostre, è il secolo in cui dall’amore puro ed elevato si passa a quello che si consuma nella camera da letto.
Rimane dunque da chiarire quale sia il significato del dipinto. Alla dimensione sessuale della scena allude non soltanto la toccata di sedere: i riferimenti sono da cogliere anche in altri elementi, come la caraffa a terra, simbolo di disponibilità all’unione (è infatti aperta, senza tappo), il brocco appuntito dello scudo di Marte che punta dritto (o eretto, verrebbe da dire considerata la situazione) verso il sedere di Venere, le perle poste direttamente sotto il sedere forse a sottolineare ironicamente il valore e i significati attribuiti a tale parte del corpo e in particolare al piacere che se ne può trarre (“cibo da prelato” viene definito il sesso anale nei Sonetti Lussuriosi dell’Aretino, o ancora “la fottitura più ghiotta che piacque a donna”, in quanto considerata modo per darsi al piacere preservando al contempo la verginità) e addirittura le pantofole in ragione della loro forma erano considerate simbolo dell’organo femminile.
C’è però un livello d’interpretazione altro, che ruota attorno al narciso ed è stato ben sottolineato dal critico d’arte Enrico Maria Dal Pozzolo che al dipinto ha dedicato il saggio Un apice erotico di Lavinia Fontana. Il gesto di Venere, che ostenta il suo narciso, potrebbe esser letto come atto in contrapposizione al gesto di Marte. Il narciso è un fiore decisamente insolito: simbolo di Venere è la rosa, e comunque nei dipinti in cui un amante, maschio o femmina che fosse, offriva un fiore, questo non era mai un narciso, che era invece simbolo di amore per se stessi e di vanità, per i suoi riferimenti mitologici, “cosa infelice et degna di riso quanto infelice et ridicolosa fu dai poeti finta la favola di Narciso”, scriveva Cesare Ripa nella sua Iconologia pubblicata nel 1593.
Il narciso, insomma, per la mentalità del tempo non apriva a significati positivi. Per di più, nell’edizione ampliata dell’Iconologia, risalente al 1618, la personificazione della stupidità è una donna che tiene una testa di capra e un narciso. Insomma, secondo Dal Pozzolo, Lavinia Fontana, con questo ulteriore inserto decisamente insolito, avrebbe voluto, con una “personalissima graffiata femminile”, etichettare Marte come ottuso egoista, nonché provocare il suo committente e lo stesso riguardante, qualora portato a “prendere troppo sul serio questa sua licenziosa ‘invenzione’”.