CuriosArte: La maledizione della principessa tatuata
Con il termine body art, si intendono tutte quelle forme artistiche che utilizzano il corpo come mezzo d’espressione. Il tatuaggio rientra tra le forme più comuni di body art.
Il tatuaggio è per l’uomo, da sempre, uno strumento con cui caratterizzare la propria identità. Spesso può essere vissuto come un vero e proprio rito di passaggio, ricorda un avvenimento importante o semplicemente può essere un mezzo attraverso il quale distinguere la propria peculiare “identità estetica”.
Una testimonianza affascinante della preistoria del tattoo, è quella rinvenuta nel 1993 al confine fra Russia, Mongolia e Cina, tra i ghiacci dei monti Altaj: il corpo mummificato di una giovane donna, fra i 20 e i 30 anni di età, decorato da articolati ed eleganti tatuaggi sulla spalla sinistra, sul braccio e sul ventre. Tatuaggi molto vicini al gusto moderno, ma incisi sulla pelle di una donna siberiana più di 2500 anni fa.
Riposava nel ghiaccio come in una favola, la “principessa di Altai”, perfettamente conservata proprio grazie alle temperature glaciali, sul suo corpo disegni di animali mitologici e di quelle che sembrerebbero essere delle divinità. Sulla spalla sinistra una renna con il becco da grifone e zampe da capricorno, un simbolo fortemente evocativo. Da un polso invece, fa capolino la testa di un’altra renna con delle grandi corna.
“I tatuaggi erano usati come mezzo di identificazione personale, come oggi si usa un passaporto” ha spiegato la dottoressa Natalia Polosmak, capo della spedizione che nel 1993 ha rinvenuto questo straordinario esempio di body art preistorica.
La donna era vestita di seta cinese, la quale indicava il suo stato elevato all’interno della società. Questo tessuto era infatti indossato generalmente da persone abbienti, essendo esso di altissimo valore.
La Principessa era stata seppellita in un remoto sito insieme a sei cavalli, molto probabilmente le sue guide spirituali per il viaggio nell’oltretomba, e due uomini, guerrieri anch’essi ricoperti da tatuaggi. Tutti questi indizi fanno pensare che la donna sia stata una narratrice di storie popolari o una sciamana piuttosto che una principessa. Con ogni probabilità, era in possesso di saperi speciali.
Secondo la Polosmak esistono esempi di tatuaggi ancora più antichi: ad esempio Oetzi, il famoso uomo dei ghiacci proveniente dal lontano 3.300 a.C. e ritrovato nelle Alpi italiane aveva delle piccole linee parallele sulle gambe e sulla parte inferiore della schiena, anche se queste non erano di certo delle decorazioni corporali così elaborate come quelle della principessa Ukok.
Nel corredo funebre della principessa è stato rinvenuto anche un piccolo recipiente colmo di cannabis, usato dalla donna per placare il dolore di un tumore al seno, che pare l’abbia poi condotta alla morte, ma anche per aiutarla a raggiungere visioni mistiche.
A rendere la storia ancora più affascinante non poteva mancare la intramontabile maledizione della mummia!
Pare, infatti, che il ritrovamento divenne subito leggenda e gli sciamani e gli stregoni del luogo cominciarono a diffondere tra il popolo un terribile monito a causa della profanazione delle sacre spoglie.
Dopo il ritrovamento, il corpo della Principessa fu portato a Mosca. Gli archeologi, guidati da Natalia Polosmak, la caricarono su un elicottero assieme al sarcofago. Destinazione Novosibirsk, piccola metropoli lungo la linea della Transiberiana. La principessa “rapita” era attesa nel museo di scienze naturali per essere studiata a fondo: analisi, esami del Dna, prelievi di tessuti, una cella alla temperatura costante di 18 gradi. Tutto il mondo attendeva risposte, attratto dal suo mistero, dalla sua eterna giovinezza, dall’eccezionalità della scoperta. L’elicottero fu colpito da un guasto, mai spiegato. Atterrò miracolosamente, con il motore in panne. La principessa proseguì il viaggio in automobile. Gli sciamani ebbero il loro momento di gloria, tra rulli di tamburi e formule magiche, contorcimenti e grida, sgozzamenti di agnelli e ipnosi, diffusero tra il popolo del Kosh-Agach il tremendo vaticinio: nessuno avrebbe dovuto toccare le sacre reliquie della principessa degli Altai, la rabbia del cielo e della terra si sarebbe rivelata implacabile.
Casualità o meno, da allora la tranquilla regione di montagna fu colpita da mali di ogni genere che si abbatterono sulla popolazione: terremoti, frane e cascate d’acqua che sgorgavano all’improvviso, siccità e carestie, un’ondata di suicidi, bestiame sterminato dalla mancanza di cibo. Maledizione?
La popolazione si ricordò della mummia in esilio della sua principessa.
La rivolta iniziò dai villaggi distrutti di Beltir e Oroktoi, pretendevano il “ritorno in patria delle sacre reliquie”. Fu stilata anche una petizione con migliaia di firme: taglialegna, allevatori di cervi Maral, pastori, mungitrici di capre, trattoristi, maestri d’erbe, professori e senzatetto. Si unì a loro anche il sindaco Auelkhan Dzhatkambaev: tutti richiedevano la risepoltura della mummia. Dagli sciamani arrivò la sentenza: solo quando la principessa degli Altai avrebbe fatto ritorno nel ghiaccio di Ukok, sarebbe tornata la pace e il benessere.
Suggestioni, coincidenze, stregonerie o altro, resta il fascino di una storia senza tempo, di credenze arcaiche che, superato lo scetticismo e il pragmatismo moderno, andrebbero rispettate e nostalgicamente custodite perchè, sebbene lontane dalle nostre tradizioni e dal nostro sentire, fanno parte di quella storia umana che va oltre i confini territoriali e che si riconduce a una più inclusiva ricchezza culturale.