CuriosArte: Il mistero dei fossili di Giotto
Il mistero dei fossili di Giotto
La Madonna di Ognissanti è un dipinto a tempera e oro su tavola di oltre tre metri per due realizzato da Giotto, che oggi si può ammirare agli Uffizi di Firenze.
Giotto fu il pittore fiorentino che, secondo una definizione molto efficace del trattatista Cennino Cennini, «rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno».
Siamo nel 1310 (o forse è il 1314-1315, c’è ancora un po’ di confusione sull’anno esatto di realizzazione dell’opera) e Giotto è sulla via del ritorno per Firenze, dopo trascorso un periodo ad Assisi.
Giotto al momento è l’artista più richiesto di sempre, e anche l’ordine religioso degli Umiliati lo vuole per realizzare la Madonna di Ognissanti da disporre sull’altare alto nella Chiesa francescana di Ognissanti a Firenze.
Per questa commissione, per la prima volta nella storia della pittura occidentale, Giotto inserisce la Madonna e il Bambino in uno spazio ben definito: Maria, come una regina, siede su un trono, iconografia che dà il titolo di Maestà al dipinto, prospetticamente ben concepito, che rende l’idea di un ambiente reale.
La composizione è simmetrica e centrata in modo determinato sulla Vergine, che tiene il Bambino seduto sulle ginocchia come farebbe qualsiasi madre, mentre Gesù benedice con la manina destra tenendo nella sinistra una pergamena arrotolata, simbolo di sapienza.
Ai lati del trono, in due ali speculari prendono posto angeli e santi, raffigurati di profilo o di tre quarti.
Gli angeli inginocchiati ai piedi della Vergine offrono in dono rose e gigli, simboli di purezza e carità. L’alternanza del rosso e del blu delle loro ali indica la sostanza del corpo angelico, fatto di fuoco e di aria.
Subito dietro, in piedi, troviamo i due santi che porgono una corona, ancora una volta riferimento alla “maestà”, e una pisside, oggetto liturgico che allude alla Passione di Cristo.
Alle loro spalle, figurano gruppi di santi parzialmente coperti dalle loro stesse aureole e dall’architettura del trono, suggerendo l’esistenza di uno spazio concreto entro il quale si collocano le figure.
I personaggi hanno una carnagione chiara e naturale e le loro vesti non hanno più un colore piatto e uniforme e, nonostante la luce sia frontale e ancora di tipo ideale, il chiaroscuro applicato alle pieghe della stoffa dà solidità e volume ai corpi.
Sovrapporre i personaggi nascondendo in parte i loro volti era una pratica nuova nel medioevo, epoca in cui le composizioni erano abitualmente strutturate in modo tale che di tutti i personaggi fosse ben visibile il volto. Ugualmente innovativa è la costruzione del trono, realizzata tramite la convergenza delle linee prospettiche verso un asse centrale. Lo spazio perde quindi il carattere di irrealtà divina per acquistare la solidità e credibilità del quotidiano.
Tuttavia la Maestà ha richiami alla realtà e alla natura, meno evidenti ma molto più curiosi: nel corso della pulitura della pala durante un recente restauro, sono apparsi dei fossili di ammonite incastonati nel finto marmo davanti all’angelo di sinistra. Non ci sono precedenti nella pittura medievale, neppure negli affreschi dello stesso Giotto a Padova: l’ammonite, nelle tarsie a finti marmi della cappella degli Scrovegni, non si vede. Il cosiddetto marmo rosso ammonitico, roccia calcarea che contiene appunto fossili di ammonite, si trova nel Nord Italia ma anche in Toscana.
Ma perché Giotto lo raffigurò nella Maestà? Chi poteva riconoscere quei fossili così impercettibili se la pala era collocata in alto? Giotto conosceva le origini geologiche dei fossili, che per quanto si sappia fu per primo Leonardo, che li chiamava nicchi, a teorizzare due secoli dopo? O forse per lui erano semplicemente una varietà di marmo da imitare, marmo che magari teneva in bottega?
Pochi anni dopo la morte di Giotto nella sacrestia di Santa Croce, Jacopo del Casentino affrescò le pareti con specchiature di finti marmi di varia natura e anche qui raffigurò alcuni fossili di ammoniti che lo stesso Giotto, dopo la Maestà, aveva ripetuto nel basamento della cappella Peruzzi a pochi passi dalla sacrestia.
Semplice imitazione della natura o c’è qualche anello della catena della conoscenza umana e della storia di Giotto, che ancora ci manca?