“Cirano deve morire” di Leonardo Manzan – Riscrittura a tre voci che trasforma “Cyrano de Bergerac” in feroci versi rap, tra Eminem e Myss Keta
Inganni e morte, fedeltà agli altri e tradimento di sé stessi, parole che seducono e silenzi che uccidono. La straordinaria storia d’amore e di amicizia di Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand ritrova la sua forza e la sua attualità in Cirano deve morire, che il giovane Leonardo Manzan ha scritto con Rocco Placidi e dirige il 18 e 19 marzo al Teatro Era di Pontedera, e dal 21 al 26 marzo al Teatro di Rifredi di Firenze. In scena Paola Giannini, Michele Eburnea, Giusto Cucchiarini, danno vita a una riscrittura a tre voci che trasforma la poesia di fine ‘800 in feroci versi rap, tra Eminem e Myss Keta.
Cirano deve morire è uno spettacolo-concerto con le musiche di Alessandro Levrero, Franco Visioli, eseguite dal vivo da Filippo Lilli, ha un ritmo indiavolato ed è pieno di rime taglienti, che affrontano in modo implacabile il tema della finzione, rivedendo, in chiave contemporanea, il racconto di un dramma post-romantico, attraverso uno dei più famosi triangoli d’amore della storia del teatro.
«Un’esibizione consapevole – afferma Leonardo Manzan – e a tratti aggressiva, che sceglie il verso rap e la sua poetica per riappropriarsi della spontaneità originaria e insieme, ma è lo stesso, della profondità che Rostand a volte sembra voler dissimulare».
Sabato 18 marzo, dopo lo spettacolo, nel foyer del Teatro Era, Filippo Lilli e Marco Ruggieri presentano Chicken Beat Live Set con sonorità che spaziano dal Funk all’Hip Hop, passando per il Beat, con influenze Jazz. Selezione di vini e cocktail a tema a cura di Gab In Teatro del Bar Gab banco&gusto.
Due uomini e la donna di cui entrambi sono innamorati. Cirano deve morire di Leonardo Manzan è la resa dei conti tra i tre protagonisti di Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand. Ossia due amici guasconi e la loro amata, l’unica che sopravvive, con addosso la condanna di non riuscire a liberarsi dai fantasmi che hanno distrutto la sua vita con l’inganno di un amore impossibile, ma che, allo stesso tempo, le hanno donato gli unici momenti di felicità. Tre ragazzi proprio come Paola Giannini, Michele Eburnea, Giusto Cucchiarini, chiamati a interpretare, rispettivamente, Rossana, Cirano e Cristiano.
La storia di Rostand ritrova slancio e attualità grazie alla riscrittura in chiave rap, scelta necessaria non solo per esprimere l’eroismo e la verve polemica di Cirano, ma anche per rendere contemporanea e autentica, quindi fedele all’originale, la parola d’amore. Il giovane Manzan dirige lo spettacolo scritto con Rocco Placidi il 18 e 19 marzo al Teatro Era di Pontedera, e dal 21 al 26 marzo al Teatro di Rifredi di Firenze. Le musiche sono di Alessandro Levrero, Franco Visioli, eseguite dal vivo da Filippo Lilli.
Il regista, romano di origine, milanese di formazione, classe 1992, si è rivelato vincitore della sezione Registi Under 30 della Biennale College proprio con Cirano deve morire alla Biennale Teatro 2018 di Antonio Latella, che così parla di lui nella motivazione del premio che gli è stato assegnato a Venezia: «Manzan ha avuto il coraggio di esporsi e di rischiare. Ha dimostrato di essere pronto ad attraversare quella linea gialla che delimita la zona di sicurezza per andare in zone anche pericolose, mai rassicuranti e ovvie». Anche l’edizione di Biennale Teatro 2020 lo ha ospitato in rassegna con lo spettacolo Glory Wall, premiato con la Targa di miglior spettacolo dalla giuria internazionale.
E non aveva ancora trent’anni Edmond Rostand quando l’attore più importante della Francia di fine ‘800, Coquelin, gli chiese un testo teatrale “su misura” che unisse il dramma storico, alla commedia, il genere comico e quello drammatico, il dramma eroico e la tragedia. Fu dunque su suo invito che nacque un capolavoro della letteratura teatrale rappresentato trionfalmente nel 1897. Un testo ricco di soluzioni di straordinaria genialità teatrale come la dimensione iperbolica del naso di Cirano, l’ironia shakespeariana della scena del balcone, la gag interna di un suggeritore da “avanspettacolo”, e poi quel sentimento d’amore infinito per una donna irraggiungibile, l’amata cugina Rossana, che profuma lontanamente di incesto. Un po’ Don Chisciotte, un po’ D’Artagnan, più romantico e scaltro di Romeo, più infelice di Amleto (perché l’unico che l’ha tradito è stato il suo corpo), Cirano rappresenta l’essere umano nel pieno della più sublime eccitazione, e nel momento del degrado più infimo, ma, in entrambi i casi, riesce a ritagliarsi un angolo di irrinunciabile dignità.
Cyrano de Bergerac è una storia di inganni e di morte, di fedeltà agli altri e di tradimento di sé stessi, una storia di parole che seducono e di silenzi che uccidono. È una straordinaria storia di amore e di amicizia, forse la più grande del teatro moderno. Affidata di consueto a interpreti maturi che vedono nel testo nient’altro che una prova d’attore, appesantita dal verso alessandrino, che non ha ancora trovato nelle traduzioni italiane risultati precisi e leggeri, si finisce inevitabilmente con il dimenticare che questa, in realtà, è la storia di tre ragazzi. Il titolo, Cirano deve morire, è una dichiarazione di intenti e insieme una preghiera che vi rivolgo in forma di esclamazione: dimenticatevi del Cyrano così come pensate di conoscerlo.
Il primo atto del Cyrano de Bergerac reca a sua volta un titolo: “Una Rappresentazione a Palazzo di Borgogna”. Non è un caso che un dramma sulla verità e sulla menzogna, sulla realtà e sulla finzione, si apra in un teatro. Un evento e il suo spazio. Richiamarlo mi serve per spiegare il primo tentativo: aderire a questa indicazione dell’autore (più suggestione che prescrizione), seguire questa traccia e portarla alle estreme conseguenze. Cirano deve morire sarà “una rappresentazione in un teatro”, nel senso che si svolge tutta e unicamente nel teatro che la ospita, dal principio alla fine.
Tra il principio e la fine naturalmente c’è una storia. La storia è nota e sarebbe inutile cercare di ammantare di mistero ciò che è semplice come la vicenda di tre ragazzi. Lo sforzo della sinossi è superfluo. In Cirano deve morire le foglie dell’ultimo atto sono ormai cadute.
A ben vedere, però, non tutto è perduto. Non tutti sono perduti. Nell’ultima scena dell’opera di Rostand Rossana vive. Quanto basta per innescare il secondo tentativo: raccontare di nuovo una storia già letta, mettere in scena una ripetizione (che sia l’ultima, perché Cirano deve morire), affinché emergano da essa le ambiguità e i significati, (le vere ambiguità e i veri significati), e questo senza che si sovrapponga, a portarci a fondo, l’interpretazione. L’interpretazione è una malattia mentale – chi l’ha detto? Sono d’accordo con lui.
Cosa vuol dire mettere ancora una volta su un palco Cirano, Rossana e Cristiano e metterli in condizione di mostrarci per l’ultima volta le loro vicissitudini? La risposta è uno spettacolo-concerto. Un’esibizione consapevole e a tratti aggressiva, che sceglie il verso rap e la sua poetica per riappropriarsi della spontaneità originaria e insieme, ma è lo stesso, della profondità che Rostand a volte sembra voler dissimulare. Professione di cortesia nei confronti del pubblico? Parrucche e abiti sfarzosi possono nascondere le cose più difficili da dire. Si può essere iconoclasti verso ciò che non è un’icona?
Forse è proprio questo il tentativo più importante: dimostrare che Cirano non è affatto un’icona, non offre schemi. Semina indizi, tracce che portano a noi. Cirano ci appare molto più simile, più prossimo di quanto pensassimo, se riusciamo a smascherarlo, cioè, letteralmente, se gli togliamo la maschera.
Leonardo Manzan