CineVisioni: la recensione de “Gli anni più belli”
Da oggi la rubrica “CineVisioni” sbarca su PuntoZip. Ogni settimana la recensione di un film presente nelle sale cinematografiche. Vedere un film al cinema è sempre un’emozione che vi consigliamo di vivere. Il nostro piacere è quello di accompagnarvi.
Sedici anni nel 1982, ricordato da tutti per il Mundial ma qui contestualizzato con la coda degli scontri di piazza tra gruppi politici. Comincia così Gli anni più belli, con l’incontro tra due amici, Giulio (Pierfrancesco Favino) e Paolo (Kim Rossi Stuart) e un terzo, Riccardo (Claudio Santamaria) che lo diventerà dopo essere stato soccorso a seguito del proprio ferimento ad opera di un proiettile vagante.
Gli anni del film sono quasi quaranta, dagli Ottanta, appunto, ai giorni nostri. I protagonisti passano dai sedici ai cinquanta e questo costringe il regista Gabriele Muccino, che firma anche la sceneggiatura insieme a Paolo Costella, a consegnare la prima parte del film a tre giovani attori, Francesco Centorame, Andrea Pittorino e Matteo De Buono, che interpretano rispettivamente Giulio, Paolo e Riccardo. Solo dopo la scena sarà lasciata a Favino, Rossi Stuart e Santamaria per i personaggi “adulti”.
Muccino decide di percorrere, ancora una volta, la traiettoria di un gruppo di amici, stavolta affiancandola e talvolta sovrapponendola alla storia contemporanea italiana (e non solo). La vicenda personale domina su quella storica, relegata a piccoli marcatori che scorrono principalmente negli schermi televisivi. Quando l’attualità deborda è solo per descrivere meglio la parabola personale di questo o quel personaggio, particolarmente Giulio, avvocato emergente ai tempi di Mani Pulite e Riccardo, che cerca la propria affermazione attraverso una candidatura nei 5 Stelle (con il nome del Movimento, chiaramente, modificato nel film ma evidente nel riferimento).
La cifra mucciniana è evidentissima, in particolare nella prima fase. I giovani attori, infatti, seppur capaci di un’interpretazione convincente, restano ligi alle indicazioni del regista-sceneggiatore al punto da dover sempre fare i conti con una narrazione sin troppo sopra le righe che inevitabilmente si ripercuote sulla recitazione, che risulta urlata e poco naturale.
L’entrata in scena dei tre “titolari” mette ancor più in evidenza questi limiti strutturali: i momenti migliori del film sono sicuramente quelli in cui la figura dell’attore giganteggia sul contesto, riuscendo finalmente a coinvolgere lo spettatore, sottolineando con grande bravura gli spin e i twist più drammatici. I loro personaggi, tristi e disincantati, prendono vita grazie alla loro interpretazione, che conferisce loro quello spessore che spesso manca nel testo.
Gli anni più belli, che si autoproclama film generazionale, risulta un po’ piatto, nonostante Muccino tenti in ogni modo di arricchirlo con cambi di direzione, buoni sentimenti che piovono a piene mani e persino qualche momento di grande drammaticità calcato con mano pesante. Il finale è autoassolutorio e scontato, un volemose bene che si poteva decisamente evitare.
Il film, tuttavia, non è da buttare: alcune interpretazioni di livello e una fattura tutto sommato buona dal lato tecnico, con qualche soluzione raffinata qua e là, unite alle musiche di Nicola Piovani lo rendono un prodotto fruibile per i palati meno fini o per chi, semplicemente, ha voglia di una bella storia italiana senza ambizione.